Corso di Shivaismo del Kashmir
Struttura del Corso
Incontri periodici, a cadenza settimanale, durante i quali vengono presentate le basi dello Shivaismo del Kashmir, con studio dei principali testi di riferimento (Tantrasara, di Abhinavagupta; Siva Sutra di Vasugupta; Spanda Karika di Vasugupta; ecc.), in un approccio che mantiene la stessa visione non-duale dei suoi ispiratori, con meditazioni ed esemplificazioni spirituali, pratiche di consapevolezza, uso di yantra e mantra.
Lo studio dello Shivaismo richiede una forma di intuizione diretta, che permetta di cogliere le verità contenute riuscendo a superare il filtro del mentale comune. La purezza del cuore e l'ardore della sincera aspirazione spirituale sono gli strumenti per poter accedere.
Questo corso è la versione italiana del corso originale di Adhinatananda, fondatore dell'unico corso in Europa di Shivaismo del Kashmir.
Inizio del Nuovo Corso ad Ottobre
Contributo: 50€/mese o 30€ per chi è già iscritto al corso di Yoga o Tantra
Prima lezione gratuita
Sede del Corso
Centro Yoga Atman - Salita della Tosse 7-9R, 16121 Genova
Per maggiori informazioni: [email protected]
Via del Cuore e della Spontaneità ispirata
Lo Shivaismo del Kashmir è una tradizione filosofica del IX-X sec. d.C. che sta ritornando alla ribalta per il modo in cui la visione del mondo stia gradualmente venendo confermata dalle recenti scoperte scientifiche, in particolare della Fisica Quantica.
La scuola Kashmira ebbe origine e si sviluppò pienamente nella valle che prende lo stesso nome, tra le meravigliose bellezze di quel luogo. Il Kashmir, essendo una regione calma e fresca diede vita ad un pensiero filosofico calmo e incantevole.
Si dice che l’uomo abbia creato il suo Dio personale in conformità con le sue proprie immagini familiari; in questo caso, potremmo dire addirittura che la spiritualità atemporale si sia felicemente cristallizzata in queste valli. Gli splendidi spettacoli dei fenomeni naturali sembravano essere attraversati dallo spirito dell’amore divino che governa tutte le cose terrene. Ecco perché i filosofi del Kashmir, a differenza di molte altre parti del mondo, hanno rinunciato a tutte le discipline dogmatiche ed etiche “ortodosse” e hanno promosso invece delle pratiche efficienti e molto piacevoli di quello che hanno chiamato shivayoga (lo YOGA dell’unione con Shiva) – un tipo speciale di raja yoga (lo yoga regale) assistito e aiutato dal sentimento di un amore profondo ed intenso per la Realtà Ultima.
La vita nella valle del Kashmir era cosi piacevole e leggiadra che i filosofi hanno espresso una via semplice, sebbene dettagliata, per conquistare lo scopo finale della vita. Il generoso regno del Kashmir, dotato di un semplice sistema di irrigazione, ha assicurato le necessità della vita senza troppe torture del corpo e della mente umana, riflettendosi poi nella tradizione shivaita di questi luoghi; quindi, senza prescrizioni di torture mentali o fisiche di dolorosa mortificazione, né pratiche esteriori di controllo forzato della mente, dei sensi e del respiro, cosi come invece viene promosso nel quadro di altre scuole di filosofia indiana.
Allo stesso tempo, esso raccomanda dei precisi cammini di meditazione spontanea, libera da ogni forma di repressione e tortura. Queste sono vie di sublimazione graduale delle emozioni e degli istinti grossolani, tramite alcuni tipi speciali di pratica di meditazione e concentrazione. La bellezza naturale delle valli del Kashmir ha da sempre ispirato la poesia e, per queste sue influenze, la maggior parte dei filosofi Kashmiri sono stati anche dei grandiosi poeti.
Introduzione allo Shivaismo Kashmiro
Gli studiosi hanno definito e classificato lo Shivaismo del Kashmir in molti modi: idealismo monistico, idealismo realistico, monismo idealistico, monismo concreto, e altro ancora. È un idealismo poiché vi si afferma che nulla può essere sperimentato se non se ne ha una percezione: ciò che dà realtà all'oggetto è la sua percezione stessa; l'oggetto è quindi una forma della consapevolezza che ne abbiamo. Questo concetto nucleare viene esteso a ogni categoria dell'esistenza, a ogni elemento del cosmo, portando a concludere che tutto ciò che appare non è che l'espressione multiforme e infinitamente rappresentata di un unico ente, la Coscienza. Persino i miraggi, le visioni e i sogni sono fenomeni ritenuti reali, e ciò che differenzia le varie percezioni è soltanto conseguenza del diverso grado di partecipazione alla Coscienza assoluta. La materia stessa, seppure in una forma limitata ("contratta") è dotata di consapevolezza.
« L'interesse per lo Shivaismo Kashmiro comincia verso la metà del secolo passato ed è lentamente proseguito fino ai nostri giorni. L'attrazione che lo Shivaismo ha per noi viene in parte dai risultati sull'origine e la natura dell'universo, che sembrano così simili alle conclusioni dei moderni scienziati da apparire sorprendentemente moderni. »
(tradotto da J. C. Chatterjee, Kashmir Shaivaism, State University of New York Press, 1986 (1914))
« Reale è l'ente che appare nel momento della percezione diretta, vale a dire, nell'esperienza che noi abbiamo di esso. Una volta che la sua forma specifica sia stata chiaramente determinata, si dovrebbe, con tenacia, indurla a penetrare nella sua natura di pura coscienza. »
(Abhinavagupta, Īśvarapratyabhijñāvivṛitivirmaśinī; citato in Dyczkowski 2013, p. 82)
In altre parole, ciò che del mondo si percepisce è una visione più o meno parziale di quell'unica realtà che è la Coscienza, in virtù della quale la percezione stessa è possibile, sebbene diversa a seconda del nostro grado di partecipazione. In questo senso il mondo è reale (e dunque si parla di "idealismo realistico"), esso non è né illusione né una nostra costruzione mentale: ciò che ci differenzia sono le limitazioni, conseguenze necessarie della Coscienza che si manifesta come molteplice anziché Una.
Secondo lo visione filosofica dello Shivaismo kashmiro, la coscienza (citi o anche saṃvit) non è una funzione del corpo, ma un ente non materiale indipendente (tattva) che il corpo supporta: è coscienza come principio ontologico e non biologico. Essa è presente non solo in ogni essere vivente, ma anche nella materia stessa, dove è concepita come "coscienza sopita". Dunque, tutto è coscienza, o, il che è lo stesso dire, la coscienza è quel sostrato che accomuna ogni cosa, l'essenza ultima. Questa essenza ultima, che è perciò Coscienza assoluta, è un aspetto dell'Assoluto, aspetto che viene usualmente indicato con Śiva (il termine tecnico è śiva tattva). Śiva è Coscienza assoluta.[35]
L'attività con cui Paramaśiva emana il mondo è diretta conseguenza della Sua beatitudine (ānanda), essa è dunque puramente spontanea, non finalizzata né causata. Questo dinamismo è chiamato in molti modi a seconda della scuola: spanda ("vibrazione"); śakti ("energia"); kriyā ("attività"); vimarśa ("attività ideativa"), eccetera. In senso generico, è adoperato il termine śakti. Śakti non è un attributo di Paramaśiva, ma un Suo stesso aspetto, che viene messo in evidenza per affiancarlo all'altro, la Coscienza. In tal senso si usa anche l'espressione Śiva-Śakti per indicare l'Assoluto, quando si vuol mettere in evidenza questo Suo duplice aspetto. Paramaśiva, l'unica Realtà, è Coscienza attiva, o anche Energia cosciente.[32]
In questa connotazione, lo Shivaismo kashmiro differisce dall'Advaita Vedānta, nel quale l'Assoluto, Brahman, è invece descritto come Coscienza assoluta priva di qualsivoglia dinamismo. E di più: la posizione vedantina è criticata in quanto, si obietta, se Brahman fosse inerte, Egli non potrebbe conoscere sé stesso, in quanto la conoscenza implica necessariamente un'attività. Paramaśiva è invece autocosciente proprio in virtù della sua stessa attività (kriyā).[32]
Ogni individuo possiede sì una coscienza limitata, ma essa è potenzialmente assoluta, perché la Coscienza, essendo essenza ultima, non è divisibile, è al più sopita o offuscata, latente, come è appunto il caso dell'individuo non realizzato.
Le scuole śaiva moniste del Kashmir intendono l'universo come il processo di espansione dell'Assoluto, indicato con molti termini, a seconda della scuola e dei testi: spesso con Paramaśiva ("Śiva supremo"), o più semplicemente con Śiva; o anche Maheśvara ("Grande Signore")[42]; Parameśvara ("Signore supremo").[43][44] Nelle tradizioni del Kaula è adoperato anche il termine Kula ("Famiglia", nel senso di "Totalità").[45] Nella tradizione del Trika l'Assoluto è altresì personificato come divinità, riferendosi così a Bhairava, ipostasi terrifica di Śiva.[46]
L'Assoluto, dunque, non crea il mondo, ma si espande o, come è descritto nel Tantrāloka, riflette Sé stesso in Sé stesso apparendo come mondo.
Un altro simbolismo che forse meglio rispecchia l'unità ancora inseparata di soggetto e oggetto, di soggetto e oggetto con-fusi, è quella di Ardhanārīśvara, il "Signore metà donna": Śiva uomo nella metà destra del corpo e donna nell'altra.
All'individuo, pur nella sua mancanza di libero arbitrio, non è allora preclusa la strada verso la beatitudine e la libertà: egli, in quanto emanazione dell'Assoluto, possiede natura divina ma ne è dimentico, inconsapevole:
« La natura divina che lo yogin raggiunge non è qualcosa che prima non fosse, ma null'altro che la sua stessa intima natura di cui egli era soltanto incapace di prendere coscienza benché fosse manifesta, per colpa delle costruzioni mentali suscitate dalla potenza di Māyā. Attraverso la graduale illustrazione dei mezzi suddetti proprio questa natura divina viene portata alla luce. »
(Kṣemarāja, Śivasūtravimarśinī, commento a III.45; citato in Vasugupta 1999, pp. 158-159)
La liberazione (mokṣa) dell'individuo, conseguibile secondo queste scuole con percorsi e mezzi differenti a seconda della tradizione, è perciò intesa come un processo inverso a quello di emanazione, un processo di regressione che può ricondurlo a Paramaśiva, riassorbirlo nell'unità originaria:
(SA) « tadaparijñāne svaśaktibhirvyāmohitatā saṁsāritvam »
(IT) « Trasmigrare è permanere nella convinzione di essere separato. »
Il termine spanda, che vuol dire "vibrazione", "energia vibrante", è stato introdotto da Vasugupta e ripreso dal suo discepolo Bhaṭṭa Kallaṭa nella Spandakārikā (VIII-IX secolo). Nella scuola esegetica che da quest'opera prende il nome, il Principio ultimo è concepito come un movimento perpetuo, fonte di ogni creazione e dissoluzione. L'essenza di questa vibrazione è l'estatica coscienza, potenza di Śiva, in perenne rinnovo.
Sebbene il metodo proposto sia graduale, il nucleo di questa filosofia è definito come un "salto" o un'improvvisa adesione al Reale che trascende completamente la divisione tra conoscente e conosciuto, e che consente allo yogi di vedere tutto l'universo come il proprio "corpo" o come l'espansione della propria energia. Chi raggiunge tale stato è chiamato Yogeśvara, "Signore degli yogi".
La liberazione è quindi il riconoscimento (pratyabhijñā) della propria natura quale Coscienza assoluta:
« Diventa simile a Śiva. » (Vasugupta, Śivasūtra, III.25; citato in Vasugupta 1999)
"Diventare ciò che si è già" è dunque diventare Śiva, riconoscersi Dio. Questo traguardo non è inteso come premio post-mortem, ma come obiettivo da ottenere nella vita attuale. Colui che raggiunge il moksa è detto liberato in vita, jīvanmukti. Il liberato in vita non vive affatto in uno stato di isolamento, non è un rinunciante, al contrario in egli è ben vivo il senso di unità col mondo. Il suo agire non è però finalizzato, non è karman: è kriyā, attività spontanea e gioiosa, assolutamente non egoistica, puro gioco interamente abbandonato nel Sé:
« Colui che si identifica con il Sé universale e sa 'che tutto questo è la mia gloria', rimane nella 'śivaità' anche di fronte alle determinazioni prevalenti [la dualità]. » (Utpaladeva, Īśvarapratyabhijñākārikā, 4.1.12; citato in Mishra 2012, p. 344)
Il jīvanmukti non rinuncia né al mondo né ai suoi piaceri, come illustra questo testo delle tradizioni del Kula:
« Il sole asciuga ogni cosa nel mondo, il fuoco consuma ogni cosa (e ancora il sole e il fuoco si mantengono puri); così anche lo yogin, pur sperimentando tutti i piaceri, non è contaminato dal peccato. »
Abhinavagupa reinterpreta lo Yoga come l'azione (kyriyā) che rimuove le tracce latenti (vāsanā) della percezione differenziata (vikalpa) derivanti dalle impurità (mala) che hanno contratto la Coscienza. Il modello di questo yoga è sempre quello degli Yoga Sūtra di Patañjali ma ne differisce perché non prevede le prime due membra, yama (le proibizioni) e niyama (le discipline):
« Le cinque proibizioni – non uccidere, non mentire, non rubare, non aver rapporti sessuali, non essere avaro –, le cinque discipline, quali l’ascesi, etc., le varie posizioni del corpo ed i diversi tipi di controllo della respirazione non sono direttamente di utilità alcuna nei riguardi della coscienza, ma semplici manifestazioni esteriori. » (Abhinavagupta, Tantrāloka, IV.87-88; in Abhinavagupta 2013)
Il termine "yoga" acquista qui un senso più vicino al suo significato etimologico ("unione"): unire quegli elementi dell'esperienza (i tattva) che costituiscono l'interezza della Coscienza. La via yogica secondo il tantrismo non è altro che lo stesso processo di emanazione dell'Assoluto che diede origine al mondo, percorso però "all'incontrario", dagli elementi grossolani e quelli sottili ai sensi di percezione e azione, alla mente, all'intelletto e quindi oltre il dominio di Māyā, fino alla Coscienza, che:
« divenuta piena e oggetto di venerazione costante, distrugge, come il fuoco alla fine del tempo, l'oceano della trasmigrazione. »
(Abhinavagupta, Tantrāloka, 8.8; citato in Dyczkowski 2013, p. 281)
Incontri periodici, a cadenza settimanale, durante i quali vengono presentate le basi dello Shivaismo del Kashmir, con studio dei principali testi di riferimento (Tantrasara, di Abhinavagupta; Siva Sutra di Vasugupta; Spanda Karika di Vasugupta; ecc.), in un approccio che mantiene la stessa visione non-duale dei suoi ispiratori, con meditazioni ed esemplificazioni spirituali, pratiche di consapevolezza, uso di yantra e mantra.
Lo studio dello Shivaismo richiede una forma di intuizione diretta, che permetta di cogliere le verità contenute riuscendo a superare il filtro del mentale comune. La purezza del cuore e l'ardore della sincera aspirazione spirituale sono gli strumenti per poter accedere.
Questo corso è la versione italiana del corso originale di Adhinatananda, fondatore dell'unico corso in Europa di Shivaismo del Kashmir.
Inizio del Nuovo Corso ad Ottobre
Contributo: 50€/mese o 30€ per chi è già iscritto al corso di Yoga o Tantra
Prima lezione gratuita
Sede del Corso
Centro Yoga Atman - Salita della Tosse 7-9R, 16121 Genova
Per maggiori informazioni: [email protected]
Via del Cuore e della Spontaneità ispirata
Lo Shivaismo del Kashmir è una tradizione filosofica del IX-X sec. d.C. che sta ritornando alla ribalta per il modo in cui la visione del mondo stia gradualmente venendo confermata dalle recenti scoperte scientifiche, in particolare della Fisica Quantica.
La scuola Kashmira ebbe origine e si sviluppò pienamente nella valle che prende lo stesso nome, tra le meravigliose bellezze di quel luogo. Il Kashmir, essendo una regione calma e fresca diede vita ad un pensiero filosofico calmo e incantevole.
Si dice che l’uomo abbia creato il suo Dio personale in conformità con le sue proprie immagini familiari; in questo caso, potremmo dire addirittura che la spiritualità atemporale si sia felicemente cristallizzata in queste valli. Gli splendidi spettacoli dei fenomeni naturali sembravano essere attraversati dallo spirito dell’amore divino che governa tutte le cose terrene. Ecco perché i filosofi del Kashmir, a differenza di molte altre parti del mondo, hanno rinunciato a tutte le discipline dogmatiche ed etiche “ortodosse” e hanno promosso invece delle pratiche efficienti e molto piacevoli di quello che hanno chiamato shivayoga (lo YOGA dell’unione con Shiva) – un tipo speciale di raja yoga (lo yoga regale) assistito e aiutato dal sentimento di un amore profondo ed intenso per la Realtà Ultima.
La vita nella valle del Kashmir era cosi piacevole e leggiadra che i filosofi hanno espresso una via semplice, sebbene dettagliata, per conquistare lo scopo finale della vita. Il generoso regno del Kashmir, dotato di un semplice sistema di irrigazione, ha assicurato le necessità della vita senza troppe torture del corpo e della mente umana, riflettendosi poi nella tradizione shivaita di questi luoghi; quindi, senza prescrizioni di torture mentali o fisiche di dolorosa mortificazione, né pratiche esteriori di controllo forzato della mente, dei sensi e del respiro, cosi come invece viene promosso nel quadro di altre scuole di filosofia indiana.
Allo stesso tempo, esso raccomanda dei precisi cammini di meditazione spontanea, libera da ogni forma di repressione e tortura. Queste sono vie di sublimazione graduale delle emozioni e degli istinti grossolani, tramite alcuni tipi speciali di pratica di meditazione e concentrazione. La bellezza naturale delle valli del Kashmir ha da sempre ispirato la poesia e, per queste sue influenze, la maggior parte dei filosofi Kashmiri sono stati anche dei grandiosi poeti.
Introduzione allo Shivaismo Kashmiro
Gli studiosi hanno definito e classificato lo Shivaismo del Kashmir in molti modi: idealismo monistico, idealismo realistico, monismo idealistico, monismo concreto, e altro ancora. È un idealismo poiché vi si afferma che nulla può essere sperimentato se non se ne ha una percezione: ciò che dà realtà all'oggetto è la sua percezione stessa; l'oggetto è quindi una forma della consapevolezza che ne abbiamo. Questo concetto nucleare viene esteso a ogni categoria dell'esistenza, a ogni elemento del cosmo, portando a concludere che tutto ciò che appare non è che l'espressione multiforme e infinitamente rappresentata di un unico ente, la Coscienza. Persino i miraggi, le visioni e i sogni sono fenomeni ritenuti reali, e ciò che differenzia le varie percezioni è soltanto conseguenza del diverso grado di partecipazione alla Coscienza assoluta. La materia stessa, seppure in una forma limitata ("contratta") è dotata di consapevolezza.
« L'interesse per lo Shivaismo Kashmiro comincia verso la metà del secolo passato ed è lentamente proseguito fino ai nostri giorni. L'attrazione che lo Shivaismo ha per noi viene in parte dai risultati sull'origine e la natura dell'universo, che sembrano così simili alle conclusioni dei moderni scienziati da apparire sorprendentemente moderni. »
(tradotto da J. C. Chatterjee, Kashmir Shaivaism, State University of New York Press, 1986 (1914))
« Reale è l'ente che appare nel momento della percezione diretta, vale a dire, nell'esperienza che noi abbiamo di esso. Una volta che la sua forma specifica sia stata chiaramente determinata, si dovrebbe, con tenacia, indurla a penetrare nella sua natura di pura coscienza. »
(Abhinavagupta, Īśvarapratyabhijñāvivṛitivirmaśinī; citato in Dyczkowski 2013, p. 82)
In altre parole, ciò che del mondo si percepisce è una visione più o meno parziale di quell'unica realtà che è la Coscienza, in virtù della quale la percezione stessa è possibile, sebbene diversa a seconda del nostro grado di partecipazione. In questo senso il mondo è reale (e dunque si parla di "idealismo realistico"), esso non è né illusione né una nostra costruzione mentale: ciò che ci differenzia sono le limitazioni, conseguenze necessarie della Coscienza che si manifesta come molteplice anziché Una.
Secondo lo visione filosofica dello Shivaismo kashmiro, la coscienza (citi o anche saṃvit) non è una funzione del corpo, ma un ente non materiale indipendente (tattva) che il corpo supporta: è coscienza come principio ontologico e non biologico. Essa è presente non solo in ogni essere vivente, ma anche nella materia stessa, dove è concepita come "coscienza sopita". Dunque, tutto è coscienza, o, il che è lo stesso dire, la coscienza è quel sostrato che accomuna ogni cosa, l'essenza ultima. Questa essenza ultima, che è perciò Coscienza assoluta, è un aspetto dell'Assoluto, aspetto che viene usualmente indicato con Śiva (il termine tecnico è śiva tattva). Śiva è Coscienza assoluta.[35]
L'attività con cui Paramaśiva emana il mondo è diretta conseguenza della Sua beatitudine (ānanda), essa è dunque puramente spontanea, non finalizzata né causata. Questo dinamismo è chiamato in molti modi a seconda della scuola: spanda ("vibrazione"); śakti ("energia"); kriyā ("attività"); vimarśa ("attività ideativa"), eccetera. In senso generico, è adoperato il termine śakti. Śakti non è un attributo di Paramaśiva, ma un Suo stesso aspetto, che viene messo in evidenza per affiancarlo all'altro, la Coscienza. In tal senso si usa anche l'espressione Śiva-Śakti per indicare l'Assoluto, quando si vuol mettere in evidenza questo Suo duplice aspetto. Paramaśiva, l'unica Realtà, è Coscienza attiva, o anche Energia cosciente.[32]
In questa connotazione, lo Shivaismo kashmiro differisce dall'Advaita Vedānta, nel quale l'Assoluto, Brahman, è invece descritto come Coscienza assoluta priva di qualsivoglia dinamismo. E di più: la posizione vedantina è criticata in quanto, si obietta, se Brahman fosse inerte, Egli non potrebbe conoscere sé stesso, in quanto la conoscenza implica necessariamente un'attività. Paramaśiva è invece autocosciente proprio in virtù della sua stessa attività (kriyā).[32]
Ogni individuo possiede sì una coscienza limitata, ma essa è potenzialmente assoluta, perché la Coscienza, essendo essenza ultima, non è divisibile, è al più sopita o offuscata, latente, come è appunto il caso dell'individuo non realizzato.
Le scuole śaiva moniste del Kashmir intendono l'universo come il processo di espansione dell'Assoluto, indicato con molti termini, a seconda della scuola e dei testi: spesso con Paramaśiva ("Śiva supremo"), o più semplicemente con Śiva; o anche Maheśvara ("Grande Signore")[42]; Parameśvara ("Signore supremo").[43][44] Nelle tradizioni del Kaula è adoperato anche il termine Kula ("Famiglia", nel senso di "Totalità").[45] Nella tradizione del Trika l'Assoluto è altresì personificato come divinità, riferendosi così a Bhairava, ipostasi terrifica di Śiva.[46]
L'Assoluto, dunque, non crea il mondo, ma si espande o, come è descritto nel Tantrāloka, riflette Sé stesso in Sé stesso apparendo come mondo.
Un altro simbolismo che forse meglio rispecchia l'unità ancora inseparata di soggetto e oggetto, di soggetto e oggetto con-fusi, è quella di Ardhanārīśvara, il "Signore metà donna": Śiva uomo nella metà destra del corpo e donna nell'altra.
All'individuo, pur nella sua mancanza di libero arbitrio, non è allora preclusa la strada verso la beatitudine e la libertà: egli, in quanto emanazione dell'Assoluto, possiede natura divina ma ne è dimentico, inconsapevole:
« La natura divina che lo yogin raggiunge non è qualcosa che prima non fosse, ma null'altro che la sua stessa intima natura di cui egli era soltanto incapace di prendere coscienza benché fosse manifesta, per colpa delle costruzioni mentali suscitate dalla potenza di Māyā. Attraverso la graduale illustrazione dei mezzi suddetti proprio questa natura divina viene portata alla luce. »
(Kṣemarāja, Śivasūtravimarśinī, commento a III.45; citato in Vasugupta 1999, pp. 158-159)
La liberazione (mokṣa) dell'individuo, conseguibile secondo queste scuole con percorsi e mezzi differenti a seconda della tradizione, è perciò intesa come un processo inverso a quello di emanazione, un processo di regressione che può ricondurlo a Paramaśiva, riassorbirlo nell'unità originaria:
(SA) « tadaparijñāne svaśaktibhirvyāmohitatā saṁsāritvam »
(IT) « Trasmigrare è permanere nella convinzione di essere separato. »
Il termine spanda, che vuol dire "vibrazione", "energia vibrante", è stato introdotto da Vasugupta e ripreso dal suo discepolo Bhaṭṭa Kallaṭa nella Spandakārikā (VIII-IX secolo). Nella scuola esegetica che da quest'opera prende il nome, il Principio ultimo è concepito come un movimento perpetuo, fonte di ogni creazione e dissoluzione. L'essenza di questa vibrazione è l'estatica coscienza, potenza di Śiva, in perenne rinnovo.
Sebbene il metodo proposto sia graduale, il nucleo di questa filosofia è definito come un "salto" o un'improvvisa adesione al Reale che trascende completamente la divisione tra conoscente e conosciuto, e che consente allo yogi di vedere tutto l'universo come il proprio "corpo" o come l'espansione della propria energia. Chi raggiunge tale stato è chiamato Yogeśvara, "Signore degli yogi".
La liberazione è quindi il riconoscimento (pratyabhijñā) della propria natura quale Coscienza assoluta:
« Diventa simile a Śiva. » (Vasugupta, Śivasūtra, III.25; citato in Vasugupta 1999)
"Diventare ciò che si è già" è dunque diventare Śiva, riconoscersi Dio. Questo traguardo non è inteso come premio post-mortem, ma come obiettivo da ottenere nella vita attuale. Colui che raggiunge il moksa è detto liberato in vita, jīvanmukti. Il liberato in vita non vive affatto in uno stato di isolamento, non è un rinunciante, al contrario in egli è ben vivo il senso di unità col mondo. Il suo agire non è però finalizzato, non è karman: è kriyā, attività spontanea e gioiosa, assolutamente non egoistica, puro gioco interamente abbandonato nel Sé:
« Colui che si identifica con il Sé universale e sa 'che tutto questo è la mia gloria', rimane nella 'śivaità' anche di fronte alle determinazioni prevalenti [la dualità]. » (Utpaladeva, Īśvarapratyabhijñākārikā, 4.1.12; citato in Mishra 2012, p. 344)
Il jīvanmukti non rinuncia né al mondo né ai suoi piaceri, come illustra questo testo delle tradizioni del Kula:
« Il sole asciuga ogni cosa nel mondo, il fuoco consuma ogni cosa (e ancora il sole e il fuoco si mantengono puri); così anche lo yogin, pur sperimentando tutti i piaceri, non è contaminato dal peccato. »
Abhinavagupa reinterpreta lo Yoga come l'azione (kyriyā) che rimuove le tracce latenti (vāsanā) della percezione differenziata (vikalpa) derivanti dalle impurità (mala) che hanno contratto la Coscienza. Il modello di questo yoga è sempre quello degli Yoga Sūtra di Patañjali ma ne differisce perché non prevede le prime due membra, yama (le proibizioni) e niyama (le discipline):
« Le cinque proibizioni – non uccidere, non mentire, non rubare, non aver rapporti sessuali, non essere avaro –, le cinque discipline, quali l’ascesi, etc., le varie posizioni del corpo ed i diversi tipi di controllo della respirazione non sono direttamente di utilità alcuna nei riguardi della coscienza, ma semplici manifestazioni esteriori. » (Abhinavagupta, Tantrāloka, IV.87-88; in Abhinavagupta 2013)
Il termine "yoga" acquista qui un senso più vicino al suo significato etimologico ("unione"): unire quegli elementi dell'esperienza (i tattva) che costituiscono l'interezza della Coscienza. La via yogica secondo il tantrismo non è altro che lo stesso processo di emanazione dell'Assoluto che diede origine al mondo, percorso però "all'incontrario", dagli elementi grossolani e quelli sottili ai sensi di percezione e azione, alla mente, all'intelletto e quindi oltre il dominio di Māyā, fino alla Coscienza, che:
« divenuta piena e oggetto di venerazione costante, distrugge, come il fuoco alla fine del tempo, l'oceano della trasmigrazione. »
(Abhinavagupta, Tantrāloka, 8.8; citato in Dyczkowski 2013, p. 281)